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La caduta del ceto medio

Addio al ceto medio: cresce in Italia la percezione di impoverimento sociale.

Lo segnala oggi Ivo Diamanti su la Repubblica, riportando i dati dell’ultimo sondaggio Demos: il nostro Paese sta attraversando un processo di declassamento sociale che ha assunto, negli ultimi anni, caratteri strutturali. Si tratta probabilmente del fenomeno regressivo più significativo dell’ultimo decennio.

Nel 2006 oltre il 60% degli italiani si riconosceva nel ceto medio. Oggi la quota è scesa al 45%, mentre quasi un cittadino su due si colloca ormai nella fascia medio-bassa. In soli dodici mesi, il calo della percezione di appartenenza alla classe media ha subito un’accelerazione di quasi dieci punti percentuali.

Il dato anagrafico è forse il più preoccupante: il 53% dei giovani tra i 18 e i 30 anni considera la propria condizione socioeconomica bassa o medio-bassa. Un dato che non riflette soltanto una fragilità reddituale o occupazionale, ma una crisi più profonda: una rottura del patto generazionale, una perdita di fiducia nella mobilità sociale e nella possibilità di progettare il proprio futuro. Colpisce in modo particolare i disoccupati, gli operai e moltissime donne, che pagano il prezzo più alto di un sistema sempre meno inclusivo.

Di fronte a questa fotografia del Paese reale, il governo continua a sottrarsi a qualsiasi responsabilità. Si ignora la realtà, si evita il confronto con i dati, si preferisce il marketing politico e la propaganda alla programmazione.

Il Partito Democratico, al contrario, ritiene indispensabile rimettere al centro dell’agenda pubblica il tema della crescita e quello della giustizia sociale: rilanciando un nuovo protagonismo delle politiche redistributive, investendo sul lavoro di qualità, sostenendo il reddito dei più fragili e rafforzando i servizi pubblici. Solo così è possibile ricostruire un’idea di futuro equa, in cui ciascuna e ciascuno possa ritrovare dignità, stabilità e le giuste opportunità.

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Comuni, boom investimenti

Il Sole 24 Ore pubblica un’accurata analisi di Gianni Trovati sull’andamento della spesa e sulle dinamiche degli investimenti pubblici dei comuni italiani nel 2025.

L’articolo fotografa con estrema chiarezza una verità spesso sottovalutata: i Comuni sono l’unico presidio pubblico che investe davvero in questo Paese.

Nei primi sei mesi del 2025, secondo i dati elaborati da IFEL-Anci, i Comuni hanno effettuato pagamenti per investimenti pari a 9,09 miliardi di euro, in crescita del +9,15% rispetto allo stesso periodo del 2024. Le stime di fine anno indicano un traguardo da 20,9 miliardi, quasi un punto di PIL, con una crescita di 1,9 miliardi rispetto al 2024.

Si investe in scuole (+9,2%), strade (+5,7%), impianti sportivi (+6,9%) e in opere culturali, biblioteche, musei, teatri, riqualificazione urbana, su progetti che producono effetti diretti sull’economia reale.

I Comuni sono diventati il braccio operativo più efficiente del PNRR, ma vanno ben oltre: investono anche fuori dai confini del Piano, con fondi propri o strutturati in altri canali.

Questa vitalità, se da un lato rappresenta un aspetto molto positivo per la crescita del territorio, stride però con l’immobilismo dello Stato centrale, che nello stesso periodo ha ridotto la propria spesa per investimenti del -10,4%, mentre i Comuni l’hanno aumentata del +19,2% in termini reali negli ultimi cinque anni.

E stride ancora di più con le scelte del governo Meloni, che non ha solo mancato di sostenere gli enti locali, ma ha addirittura fatto cassa sui Comuni: tagliando trasferimenti agli enti locali e lasciando sole le amministrazioni locali nella gestione dei costi dei servizi pubblici fondamentali, dai centri estivi alla scuola dell’infanzia, fino al trasporto scolastico.

Da chi si professa paladino dell’autonomia, ci si sarebbe aspettati il contrario: un rafforzamento delle capacità finanziarie e amministrative degli enti locali, non certo tutta la serie di misure punitive contro i comuni che il governo ha messo in campo in questi quasi 3 anni.

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Effetto dazi sulla Lombardia

L’introduzione dei dazi statunitensi del 30% su numerosi prodotti europei rappresenta un colpo durissimo per l’economia italiana.

Secondo le stime di ReportAziende, basate su dati Istat ed Eurostat, l’effetto complessivo sull’occupazione potrebbe riguardare tra i 115.000 e i 145.000 lavoratori, con un impatto diretto sulle PMI esportatrici e sulle filiere agroindustriali integrate. Il 75% di questo impatto si concentrerà nel Nord Italia, colpendo il cuore produttivo del Paese.

In questo scenario, la Lombardia è tra le regioni più esposte. Secondo l’elaborazione le esportazioni lombarde verso gli Stati Uniti, nei comparti oggetto dei nuovi dazi, superano i 5 miliardi di euro all’anno.

Le conseguenze potrebbero coinvolgere tra i 30.000 e i 35.000 posti di lavoro, in particolare nelle province di Milano, Brescia, Mantova e Bergamo, dove si concentrano alcuni dei distretti industriali più internazionalizzati del Paese.

I settori a rischio – farmaceutica, meccanica, moda, agroalimentare – potrebbero perdere rapidamente competitività a vantaggio di produttori di Paesi terzi come India, Brasile e Canada. Le PMI meno strutturate potrebbero essere costrette a ridurre gli organici o sospendere le esportazioni. Il rischio è un effetto domino: calo dei margini, contrazione degli investimenti, perdita di competitività, aumento dei prezzi.

Oltre all’export, le conseguenze negative potrebbero riversarsi anche sul mercato interno: l’accumulo di prodotto invenduto e l’aumento dei costi di produzione per le imprese meno diversificate rischiano di generare un aumento dei prezzi al consumo fino al 10% nei settori colpiti, già dal primo trimestre del 2026.

E mentre tutto questo accade, il Governo Meloni tace. Nessuna iniziativa di diplomazia commerciale, nessuna misura concreta a sostegno delle filiere produttive. Un silenzio che rischia di trasformarsi in complicità. Il Partito Democratico chiede un'azione immediata presso la Commissione UE e l’attivazione di una trattativa con l’Amministrazione USA, incentivi alle imprese per la diversificazione dei mercati e un fondo di salvaguardia per le imprese e i lavoratori colpiti dai dazi.

Chiediamo al Governo una politica industriale e commerciale che difenda il valore aggiunto dei nostri prodotti. Ma la destra, che continua a proclamare la difesa del Made in Italy, di fronte a una minaccia reale e immediata come questa, è ancora immobile. Esiste perfino un Ministero dedicato al Made in Italy, ma a oggi non si vede alcuna azione concreta per tutelarlo davvero. Le parole non bastano più: servono politiche industriali, commerciali e diplomatiche all’altezza delle sfide.

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I dati su salari e ricchezza

Il 75% della ricchezza è in mano agli over 50. E i salari in Italia sono crollati del 7,5% rispetto al 2021.

Una ricerca condotta da Proof Society insieme al think tank Tortuga, che mette in luce dati molto allarmanti: in Italia, le possibilità di migliorare la propria condizione sociale rispetto a quella di partenza, si sono drasticamente ridotte. Il contesto in cui si nasce incide sempre di più nel determinare il proprio futuro, limitando le opportunità di mobilità sociale.

A livello tecnico, il dato più drammatico è quello patrimoniale: le generazioni under 40 possiedono appena il 18% della ricchezza complessiva. Chi ha più di 50 anni ne controlla il 75%. E questo divario rischia di ampliarsi ulteriormente nei prossimi vent’anni, spinto da fattori demografici e dall’assenza di una seria politica sulle successioni.

A questo si somma il calo reale dei salari: secondo l’OCSE, l’Italia ha registrato la peggiore performance tra i Paesi sviluppati. In Germania, Francia e Spagna i salari crescono. Da noi, scendono. E peggiora anche la capacità di comprendere concetti economici di base: solo il 35% degli italiani è in grado di fare semplici calcoli finanziari.

La destra al governo non solo ignora questi temi, ma spesso contribuisce ad aggravare le disuguaglianze con scelte sbagliate, interventi populisti o, in alcuni casi, smantellando misure di protezione rivolte alle fasce più fragili della popolazione.

Il Partito Democratico chiede da tempo una riforma fiscale redistributiva e una strategia per garantire salari dignitosi, a partire dall’approvazione della legge sul salario minimo legale.

Molte delle nostre proposte chiedono di investire di più sulla formazione e dí predisporre un grande piano per l’occupazione giovanile e sulla qualità del lavoro. Per cambiare le cose servono investimenti pubblici: sulla casa, sull’istruzione, sull’inclusione sociale, e una lotta seria all’evasione che consenta così di abbassare la pressione fiscale su lavoratori e imprese.

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ISTAT: prezzi al consumo

A giugno 2025 l’inflazione generale sale all’1,7%, secondo le stime preliminari dell’Istat diffuse ieri. Un dato che potrebbe sembrare fisiologico. Ma se si guarda al dettaglio, emergono ulteriori segnali del graduale ma costante deterioramento del potere d’acquisto per milioni di famiglie.

Il cosiddetto “carrello della spesa” – beni alimentari, per la cura della casa e della persona – accelera fino al +3,1%. E preoccupa anche l’inflazione di fondo, cioè quella che esclude le componenti più volatili come l’energia e gli alimentari freschi, che si attesta al +2,1%. In pratica, i rincari colpiscono i consumi più stabili e quotidiani.

Un’inflazione sostenuta su queste voci ha un effetto regressivo: pesa di più su chi ha redditi più bassi, perché i beni essenziali rappresentano una quota molto più elevata della loro spesa. È così che l’inflazione alimentare diventa una tassa occulta sulla povertà.

Eppure il governo resta fermo. Ad oggi non esiste nessun piano anti-inflazione. Non esistono meccanismi automatici di sostegno. Mentre si spendono miliardi in condoni e favori fiscali, si lascia che le famiglie paghino il conto.

Il Partito Democratico ha proposto un fondo di compensazione per l’inflazione, per proteggere i redditi medio-bassi e indicizzare parzialmente le detrazioni, il rafforzamento delle misure per il lavoro dipendente, a partire da una maggiore detassazione dei premi di produttività e un osservatorio permanente sui prezzi con strumenti di intervento rapido sui beni di prima necessità.

In tempi di instabilità, servono politiche pubbliche attive e giuste. Il silenzio del governo non è solo un errore economico, ma anche una scelta politica che colpisce i più deboli.A giugno 2025 l’inflazione generale sale all’1,7%, secondo le stime preliminari dell’Istat diffuse ieri.

Un dato che potrebbe sembrare fisiologico. Ma se si guarda al dettaglio, emergono ulteriori segnali del graduale ma costante deterioramento del potere d’acquisto per milioni di famiglie.

Il cosiddetto “carrello della spesa” – beni alimentari, per la cura della casa e della persona – accelera fino al +3,1%. E preoccupa anche l’inflazione di fondo, cioè quella che esclude le componenti più volatili come l’energia e gli alimentari freschi, che si attesta al +2,1%. In pratica, i rincari colpiscono i consumi più stabili e quotidiani.

Un’inflazione sostenuta su queste voci ha un effetto regressivo: pesa di più su chi ha redditi più bassi, perché i beni essenziali rappresentano una quota molto più elevata della loro spesa. È così che l’inflazione alimentare diventa una tassa occulta sulla povertà.

Eppure il governo resta fermo. Ad oggi non esiste nessun piano anti-inflazione. Non esistono meccanismi automatici di sostegno. Mentre si spendono miliardi in condoni e favori fiscali, si lascia che le famiglie paghino il conto.

Il Partito Democratico ha proposto un fondo di compensazione per l’inflazione, per proteggere i redditi medio-bassi e indicizzare parzialmente le detrazioni, il rafforzamento delle misure per il lavoro dipendente, a partire da una maggiore detassazione dei premi di produttività e un osservatorio permanente sui prezzi con strumenti di intervento rapido sui beni di prima necessità.

In tempi di instabilità, servono politiche pubbliche attive e giuste. Il silenzio del governo non è solo un errore economico, ma anche una scelta politica che colpisce i più deboli.

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