Green economy
Ieri a Bruxelles il Consiglio dei Ministri UE dell’Ambiente è tornato a discutere la riforma degli obiettivi climatici per il post-2030. Le divisioni tra gli Stati membri mostrano quanto la strada verso la neutralità climatica sia ancora complessa, ma anche quanto sia urgente non rallentare.
In questi giorni a Rimini si svolgono gli Stati Generali della Green Economy e la Relazione sullo Stato della Green Economy in Italia fotografa un Paese che avanza tra luci e ombre. Le emissioni di gas serra sono calate del 28% rispetto al 1990, ma nel 2024 la riduzione è stata minima: appena il 2%. I consumi energetici sono tornati a crescere, soprattutto in edilizia e nei trasporti, e la dipendenza energetica dall’estero resta troppo alta.
Tra i problemi principali, abbiamo il parco auto più grande d’Europa – 701 auto ogni 1000 abitanti – e una mobilità elettrica che ancora arranca: nel 2024 le immatricolazioni di auto elettriche sono scese del 13%, con una quota di mercato tre volte inferiore alla media europea. E poi c’è un tema che dobbiamo avere il coraggio di mettere al centro: il consumo di suolo. Tra il 2022 e il 2023 sono stati impermeabilizzati oltre 64 km² di territorio, pari a 17 ettari al giorno.
Ogni metro quadrato di terreno perso significa meno capacità di assorbire le piogge, più rischio idrogeologico e meno spazi verdi per le nostre comunità. Difendere il suolo significa difendere la sicurezza, la salute e la qualità della vita.
Accanto a queste criticità, ci sono però segnali incoraggianti. La relazione evidenzia come la produzione di energia da fonti rinnovabili sia arrivata al 49% del totale nazionale e come l’Italia sia al vertice in Europa per economia circolare, con tassi di riciclo tra i più alti del continente.
Sono risultati che arrivano soprattutto dal basso, grazie ai Comuni italiani che hanno saputo utilizzare i fondi del PNRR per investire in mobilità sostenibile, rigenerazione urbana, gestione dei rifiuti, verde pubblico. Esperienze concrete che dimostrano come la transizione ecologica possa creare innovazione e migliorare la vita delle persone.
Con gli investimenti green del PNRR si è dimostrato che la sostenibilità non è un costo, ma un moltiplicatore di sviluppo, lavoro e competitività.
La destra non solo continua a dipingere il Green Deal come un nemico ma continua a tagliare risorse per la transizione ambientale. Una scelta miope perché il Green Deal rappresenta la più grande occasione di modernizzazione del Paese. Fermare questo processo significa bloccare investimenti, innovazione e nuovi posti di lavoro.
Il Partito Democratico chiede al Governo di non smantellare gli strumenti della transizione, ma di rilanciarli.
Il Green Deal non è un lusso per tempi migliori, ma l’unica scelta possibile per il futuro dell’Italia. Rallentare oggi significherebbe pagare domani un prezzo economico, ambientale e sociale ancora più alto.
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Un documento che, ancora una volta, non possiamo fare altro che contestare perché guarda più ai vincoli europei che ai bisogni reali di famiglie e imprese, e soprattutto non affronta i nodi veri del Paese: la povertà crescente, il lavoro povero e le basse retribuzioni, la produzione industriale in calo e la crescita che non supera lo 0,5 per cento, il sottofinanziamento della sanità e l’assenza di politiche per i più giovani.
Nel 2025 il deficit si fermerà attorno al 3%, un risultato che consentirà all’Italia di uscire dalla procedura per disavanzo eccessivo con un anno di anticipo. Ma questo non si traduce in crescita: il Pil resta inchiodato allo 0,5% nel 2025, allo 0,7% nel 2026 e sotto l’1% per i tre anni successivi. Numeri che descrivono un Paese fermo, nonostante la retorica del governo sulla “ripartenza”.
L’unica voce che cresce davvero è quella delle spese militari, con un incremento di oltre 23 miliardi nel triennio, frutto dell’accordo sottoscritto da Meloni in sede NATO. Una scelta che rischia di lasciare scoperti i fronti sociali più urgenti: sanità, scuola, politiche per la casa e sostegno ai redditi.
Il governo da un lato aumenta le spese militari e dall’altro sceglie di rassicurare le agenzie di rating più che di dare risposte al Paese reale.
L’ipotesi del taglio di due punti di Irpef è una misura, che non incide davvero sul potere d’acquisto del ceto medio, mentre cresce la spesa privata per sanità e servizi pubblici sottofinanziati. E sulle politiche per la natalità, il governo continua a rincorrere con bonus una crisi demografica che richiede ben altro: lavoro stabile e ben retribuito, congedi paritari, asili nido pubblici e gratuiti.
Il Partito Democratico propone una direzione opposta a quella della destra: una vera politica industriale per accompagnare la transizione ecologica e digitale e un grande piano per il lavoro di qualità, contro la precarietà e i bassi salari. E un investimento strutturale nella sanità pubblica e nei servizi educativi, perché la crescita economica passa prima di tutto dal benessere delle persone.